Diario d'inverno è un colloquio di Auster con se stesso. Si dà del tu. Si racconta a sé. Il lettore assiste a questo dialogo intimo, probabilmente sincero (perché che senso avrebbe altrimenti?), avvertendo questo senso di "terzietà”, tanto da chiedersi se questo diario Auster l'abbia scritto senza pensare che sarebbe stato pubblicato, o comunque senza farsene condizionare. Come se fosse una necessità e il di altri giudizio non fosse una preoccupazione. Anzi, in tutto il Diario solo in poche occasioni Auster prende posizione nei confronti del suo "tu": quando si attribuisce il plauso di essere un ottimo guidatore (lo fa più volte, quindi dev'essere una cosa cui tiene particolarmente), e quando si rammarica, vergognandosene, di non essere intervenuto in un episodio a prendere le parti di una persona (al funerale del padre, quando lo zio caccia sgradevolmente un ex dipendente che non era stato invitato). Per il resto, il racconto, per quanto intimo, è distaccato dall'intento di "tirare le somme". Non autogiudicandosi, Auster si sottrae al rischio - altissimo in un'autobiografia - di cadere nell'autocompiacimento o nella ricerca di riparazione dell'errore. E questo rende più facile al lettore procedere, senza sentirsi un voyeur né chiamato a provare simpatia o pena o qualunque sentimento di accordo o disaccordo. Soprattutto, Auster riesce nella sfida quasi impossibile di scrivere un diario che non annoi, tenendosi alla larga dalla storia della sua carriera, che tanto è fatto "risaputo".
Nella prima parte racconta cronologicamente gli anni della sua infanzia e giovinezza con lo stratagemma narrativo (che ho apprezzato) della successione delle case in cui ha vissuto. Poi procede più disordinatamente, saltando di argomento in argomento, secondo le connessioni incalcolabili e zigzaganti che la mente fa quando si muove liberamente, trasportata da ricordi che richiamano altri ricordi, in cui non mancano la famiglia (la mamma soprattutto, ma anche il padre e i genitori della moglie), le dichiarazioni d'amore per la (seconda) moglie, New York e gli altri luoghi in cui ha vissuto, ma su tutti New York, e una profusione di emozioni sensoriali scatenate da esperienze e accadimenti portati fuori dalla memoria cui non si può dare una classificazione d'importanza, perché tutto nell'economia di quel che abbiamo vissuto è stato rilevante, anche quello che può sembrare insignificante... perché, se ce lo ricordiamo, evidentemente non lo è.
La scrittura è fluida, discorsiva, rilassata. Riesce a intrattenere anche quando fa scorrere lunghi elenchi. Ci vuole molto talento per solleticare il pensiero critico senza cadere nei luoghi comuni, senza toccare i facili tasti emozionali in cui tutti si possono sentire coinvolti.
Solo il finale arriva brusco. Dopo il racconto dell'urlo - immaginario - dei 50.000 soldati russi tumulati a Bergen Belsen (campo di sterminio dove morirono tra gli altri Anna Frank e sua sorella). Sembra un abbozzo di pensieri su cui elaborare il prossimo paragrafo. Invece finisce così. Sgraziatamente. Come se, di fronte alla repentina presa di coscienza di aver aperto la porta - a 64 anni - sull'inverno della sua vita, Paul Auster si sia trovato senza parole.
Ma per quanto ancora non sappia cosa lo aspetti ora ("quante mattine restano?"), la finezza di ripetere in chiusura la stessa frase dell'incipit, lascia immaginare che le stagioni dell'esistenza già trascorse non abbiano cambiato il suo modo di sentire la vita sotto i piedi. Il Paul di 64 anni che scende dal letto e il Paul di 6 che dal letto si alza sono ancora lì, a darsi del tu.